BRIANZA – Nel 40° anniversario della morte del Generale C.A. Dalla Chiesa, le città della Brianza ne espongono i manifesti celebrativi. Numerosie le scuole, i negozi e i palazzi delle istituzioni che hanno accolto l’iniziativa di esporre la locandina a ricordo.
Il 3 settembre 1982, sotto i colpi sparati della mafia, morirono il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa,Prefetto di Palermo, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente della scorta Domenico Russo. A quaranta anni dal quel terribile e vigliacco agguato, l’Arma dei Carabinieri ha ricordato il Generale con locandine che affisse nelle scuole, luogo di formazione dei nostri giovani, ma anche nelle sedi delle istituzioni e nelle vetrine di molti negoni .
Come ha ricordato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo scorso anno “La loro barbara uccisione rappresentò uno dei momenti più gravi dell’attacco della criminalità organizzata alle Istituzioni e agli uomini che le impersonavano, ma, allo stesso tempo, fini per accentuare ancor di più un solco incolmabile fra la città ferita e quella mafia che continuava a volerne determinare i destini con l’intimidazione e la morte. Pur nella brevità dell’incarico svolto a Palermo, il sacrificio del prefetto Dalla Chiesa e il suo lascito ideale contribuirono ad orientare molte delle scelte che, negli a successivi, hanno consentito un salto di qualità nell’azione di contrasto ai fenomeni di infiltrazione mafiosa nell’economia e nella pubblica amministrazione”
”Certe cose non si fanno per coraggio, si fanno solo per guardare più serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli“. ( Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa )
La resistenza, la lotta al terrorismo, quella al banditismo e alla mafia. Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale dei Carabinieri, è artefice di tutto questo e la sua vita si intreccia con la storia del nostro Paese. Il futuro generale Dalla Chiesa è nato a Saluzzo, in Piemonte nel 1920 ed è morto a Palermo il settembre del 1982. Era in Sicilia da appena 120 giorni, lui, l’uomo che aveva sconfitto le Brigate Rosse, mandato, come prefetto, a combattere la guerra di mafia che faceva più di un morto al giorno in quegli anni a Palermo.
Lo uccise, quarant’anni fa, la mafia. Uccise lui, la seconda moglie, Emanuela Setti Carraro, e l’agente di scorta Domenico Russo. Lo uccise quasi prima ancora che potesse davvero cominciare a lavorare.
L’Arma era nel suo dna. Figlio di un generale dei Carabinieri entrò nell’Arma durante la seconda guerra mondiale, dopo aver fatto parte dell’esercito. Il giorno dell’armistizio, l’8 settembre del 1943 era al comando della tenenza di San Benedetto del Tronto per poi passare al comando provinciale di Ascoli Piceno. Si era appena laureato in giurisprudenza.
Si rifiutò di partecipare alla ricerca e agli arresti dei partigiani. Fuggì prima di essere catturato delle forze tedesche occupanti e si unì alla resistenza, diventando uno dei responsabili delle trasmissioni radio clandestine di informazioni per gli americani. Nel dicembre del 194 passò le linee nemiche e entrò nella parte d’Italia già liberata. Fu incaricato di garantire la sicurezza della Presidenza del Consiglio dei ministri dell’Italia liberata a Roma e poi passò a Bari dove studiò scienze politiche e conobbe Dora Fabbo, che nel 1946 sarebbe diventata sua moglie e madre dei tre figli, la conduttrice televisiva Rita, Nando e Simona.
Passò dalla Campania e dalla Toscana prima di essere inviato a Palermo. Qui il suo impegno fu rivolto alla lotta al banditismo contro gruppi come quello di Salvatore Giuliano. Indagò sulla scomparsa, a Corleone, del sindacalista socialista Placido Rizzotto, per cui venne accusato il boss della mafia Luciano Liggio. Negli anni fu a Como, Roma e Milano per tornare in Sicilia dal 1966 al 1973, anni in cui le sue esperienze si intrecciarono con quelle di altre personalità dello Stato che sarebbero state uccise dalla mafia come Pio La Torre e Boris Giuliano.
Dalla Chiesa fece rapporti, studiò la mafia. Conoscere il nemico, impararne metodi e personalità fu metodo fondamentale per gli anni che sarebbero venuti, quelli della lotta al terrorismo delle Brigate Rosse. Selezionando dieci ufficiali, creò nel maggio del 1974 il Nucleo Speciale Antiterrorismo, che riuscì a catturare a Pinerolo Renato Curcio e Alberto Franceschini. Determinante la collaborazione di Silvano Girotto, detto frate mitra. In nucleo fu sciolto due anni dopo criticato per i metodi usati nell’infiltrazione degli agenti tra i brigatisti.
Nel febbraio del 1978 perse, per un infarto, la moglie Dora. In quell’anno, quello del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro, riprese la sua lotta contro le Brigate Rosse. Il 9 agosto fu nominato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo, con poteri speciali per diretta determinazione governativa. Aveva poteri speciali, contestati soprattutto a sinistra come atto di repressione. Anche questi portarono al blitz nel covo di via Montenevoso a Milano, dove furono ritrovate carte riguardanti Aldo Moro, tra le quali un presunto memoriale dello leader democristiano.
Dell’anno successivo è il rapporto con il pentito brigatista, Patrizio Peci. Con le sue rivelazioni contribuì alla sconfitta delle BR, come l’irruzione di via Fracchia, a Genova. Seguì un periodo di indagini, con operazioni non sempre di successo, a causa anche di false e mancate informazioni, periodo di isolamento all’interno dell’Arma.
Il 16 dicembre 1981 dalla Chiesa venne nominato Vicecomandante generale dell’Arma, massima carica raggiungibile per un ufficiale generale dei Carabinieri. Il 6 aprile del 1982 il Consiglio dei ministri lo nominò prefetto di Palermo. Si insediò in città il 30 aprile, giorno dell’omicidio di Pio La Torre. Il governo Spadolini sperava che l’uomo che aveva sconfitto le brigate rosse potesse fare lo stesso con la mafia. «La mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana» diceva, non convinto che si potesse affrontare come era stato affrontato il terrorismo. Nell’estate di quell’anno sposò in seconde nozze Emanuela Setti Carraro. Mai arrivarono i poteri speciali che gli erano stati promessi: «Mi mandano in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì».
Studiò le famiglie mafiose, ne fece un organigramma e spiegò, anche in una intervista a Giorgio Bocca, che la mafia doveva essere combattuta strada per strada, rendendo evidente alla criminalità la massiccia presenza di forze dell’ordine.
La sua fu una morte annunciata, dal clima di quella Palermo, ma anche da una telefonata anonima fatta fine agosto ai carabinieri di Palermo: «l’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, dico quasi conclusa». Alle 21 e 15 del 3 settembre 1982, ventiquattro giorni prima del suo sessantaduesimo compleanno, la A112 sulla quale viaggiava il prefetto, guidata dalla moglie, fu affiancata in via Carini a Palermo da una BMW, dalla quale partirono alcune raffiche di Kalashnikov AK-47, che li uccisero entrambi. Morì 12 giorni dopo in ospedale l’agente di scorta Domenico Russo che seguiva con un’altra auto quella del generale.
Nel giorno dei funerali ci furono proteste contro i politici accusati di aver lasciato solo il generale, unico risparmiato il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. La figlia Rita chiese che fossero immediatamente tolte le corone di fiori inviate dalla Regione Siciliana. Sul feretro del padre volle il tricolore, la sciabola, il berretto della sua divisa da Generale con le insegne e la sciarpa. Il cardinale Pappalardo citò Tito Livio: «Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo». Per i tre omicidi sono stati condannati all’ergastolo come mandanti i vertici di Cosa nostra: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci.